Home Senza categoria “A’ Merica”: Storia dei napoletani emigrati negli USA – A cura di Anna Cozzolino

“A’ Merica”: Storia dei napoletani emigrati negli USA – A cura di Anna Cozzolino

da D. De Stefano
0 commento
Furono migliaia i napoletani che specialmente tra la fine dell’800 e i primi anni del 900 lasciarono il porto di Napoli alla volta di Baltimora, Boston, New Orleans, New York e Philadelphia. Loro, gli emigranti in partenza, ai loro fratelli, alle loro madri, ai loro figli che restavano in patria, non dicevano mai addio: partivano, ma in cima ai loro pensieri restava sempre e solo Napoli, perché ogni napoletano vuole vivere a Napoli e là vuole morire! 

Non tutti partivano da soli. Con il cuore in lacrime, ma colmo di speranze, c’era chi portava con sé tutto ciò che aveva, la famiglia.  La maggior parte di loro non partì per l’America col progetto di restarci, anzi erano considerati uccelli di passaggio e in quanto tali ritenuti
inaffidabili. Un motivo in più per guardarli con sospetto.
Il  75% degli immigrati erano agricoltori in Italia ma non aspiravano ad esserlo negli Stati Uniti (in quanto questo implicava una permanenza che non era nei loro piani). Al contrario, si diressero verso le città dove c’era richiesta di lavoratori e dove le paghe erano relativamente alte. Molti uomini lasciarono a casa mogli e bambini, perché convinti di ritornare (e molti, moltissimi lo fecero), ma i napoletani non ripudiarono mai la loro città, anzi continuarono a vivere secondo il loro stile di vita tutto partenopeo. È anche certo che vari cognomi furono trascritti erroneamente a causa della scarsa diligenza e conoscenza dell’italiano da parte del personale di bordo addetto e – sembrerà incredibile ma molti emigranti non erano in grado di indicare correttamente il proprio cognome , ma mai si scordarono il paese di provenienza , la provincia e la loro terra natia.
La maggior parte dell’emigrazione napoletana e anche del sud Italia cominciò con l’avvento dell’Unità d’Italia , prima erano i settentrionali ad emigrare. Il Regno delle Due Sicilie fu invaso nel 1860 ed occupato militarmente, senza dichiarazione di guerra, dal regno piemontese dei Savoia (Regno di Sardegna). Seguirono dieci anni di guerra civile sanguinaria, durante la quale furono assassinati circa un milione tra Napoletani e Siciliani. Tutto il patrimonio monetario fu rapinato dalle casse dello Stato delle Due Sicilie e perfino i macchinari delle fabbriche napoletane furono portati al Nord dove in seguito sorsero le industrie del Piemonte, della Lombardia e della Liguria (il cosiddetto “triangolo industriale”). A questo si aggiunse poi la depressione economica causata dalle politiche colonizzatrici dell’Italia “unita.” Per molti Napoletani e Siciliani l’unica via di salvezza fu l’emigrazione.
L’emigrazione napoletana si è sempre differenziata dalle altre. I napoletani si sono sentiti sempre napoletani anche dopo 100 anni negli USA anche se capaci di integrarsi nella società. Molte famiglie investirono i loro risparmi sui giovani per consentire loro di raggiungere il Nuovo mondo, un paio di scarpe nuove e i soldi, per le prime spese, nascosti nella cintura del pantalone e i napoletani partirono, lasciandosi dietro gli affetti e il mare di Santa Lucia.
E cosi si giunge alla “Merica”, a centinaia di migliaia affrontando la povertà, la discriminazione e l’isolamento dovuti al fatto di essere in una terra straniera. La maggior parte degli immigrati era molto giovane quando arrivarono lì. Scoprirono che non solo le strade non erano lastricate d’oro, ma che erano proprio loro quelli che dovevano lastricare quelle strade . Si trovarono ad essere considerati persone inferiori, sporche e stupide. 
Una volta giunti a destinazione, questi venivano pre-esaminati in una manciata di secondi, i dottori controllavano respirazione, postura, condizione fisica generale. Manifestazioni di debolezza, difficoltà dovute all’età, potevano rendere necessari ulteriori controlli. A chi non passava la prima visita veniva apposto con il gesso un simbolo che ne identificava la possibile malattia: una H per i malati di cuore, CT per il tracoma (infiammazione dell’occhio molto contagiosa), via via sino alla lettera X cerchiata che indicava la malattia mentale.
Non era così raro che qualcuno, appena ne aveva l’occasione, rivoltava la giacca contrassegnata e se la rinfilava, rientrando così nel gruppo degli ammessi.
Quando la situazione generale era poco chiara, non solo sotto l’aspetto sanitario, sull’abito veniva apposta la sigla SI che significava doversi sottoporre ad alcune domande da parte degli ispettori in una stanza dedicata. E qui, spesso per pura ingenuità, crollarono molte speranze o, quantomeno, nascevano delle difficoltà.
Tra le domande più insidiose per gli aspiranti americani ce ne erano due solo apparentemente semplici. La prima era: “Hai già un lavoro che ti aspetta?” e l’altra “Chi ti ha pagato il biglietto?'”. Rispondere con sincerità poteva significare tornare indietro e per molti poveri immigrati finì proprio così.
Gli ufficiali addetti avevano un preciso mandato, quello di impedire che entrassero in America pregiudicati, malati di mente, indigenti, ritardati mentali, chi soffriva di malattie contagiose, persone ritenute potenziali criminali.
Un’altra circostanza particolare era quella delle ragazze sole. La legge americana non consentiva loro di raggiungere la terraferma senza un parente che le accompagnasse.
Quando dichiaravano che sarebbero state raggiunte dal fidanzato, erano obbligate ad attenderlo sull’isola, anche per giorni e giorni.
I medici di servizio controllavano ciascun emigrante: sulla loro schiena segnavano con un gesso la loro condizione di salute. PG per una donna incinta, K per ernia, X per problemi mentali – e così via.
Successivamente, si passava alla Sala dei Registri. Venivano registrati nome, luogo di nascita, stato civile, luogo di destinazione, disponibilità di denaro, professione e precedenti penali. Una volta sbrigate queste pratiche burocratiche, ottenevano il permesso di sbarcare e venivano accompagnati al molo del traghetto per Manhattan.
Nel corso degli anni vennero aggiunte altre normative che restrinsero le possibilità di accesso negli USA, tra cui, nel 1917, quella di una prova di alfabetismo. In poche parole, dall’età di sedici anni in su bisognava saper leggere un brano di almeno 40 parole nella lingua madre.
La maggioranza degli emigrati napoletani si stabilì a New York e dintorni e molti vi si stabilirono definitivamente .Salvo naturalmente quelli – circa la metà – che preferirono rientrare in patria appena messo da parte il gruzzolo necessario per acquistare la casa e il podere. Un intero quartiere della città fu chiamato Little Italy perché abitato principalmente da Italiani
Come la maggior parte degli emigrati Italiani , anche i napoletani si trovarono impreparati ad affrontare il nuovo ambiente e una lingua nuova e quindi incomprensibile, diventando così sempre più chiusi. L’impossibilità di comunicare con gli altri li costrinse anche a raggrupparsi fra loro fino a dare vita a dei ghetti le cui condizioni di vita sono difficilmente descrivibili. Molti si affidarono a connazionali senza scrupoli che specularono sulla loro pelle ora truffandoli vergognosamente, ora “affittandoli” a questa o quell’impresa edile per malpagati lavori di “picco e pala”.
Un altro grande problema era quello dell’abitazione e in tanti scelsero di stabilirsi nei decrepiti edifici di legno, abbandonati da tempo dai precedenti abitanti, che si allungavano a ridosso del ponte di Brooklyn.
Questo improvviso affollamento della zona fece naturalmente la fortuna dei padroni di case, ma trasformò quel quartiere in un formicaio dove la miseria, la delinquenza, l’ignoranza e la sporcizia erano gli elementi dominanti. In questo tipo di ambiente furono costretti a vivere quei napoletani che avevano tanto sognato di rifarsi una vita e di fare fortuna lontani dalla loro terra .
Un agglomerato di gruppi regionali diversi dove ogni domenica si festeggiava qualche santo patrono, dove riecheggiavano grida in tutti i dialetti del sud italiano, ma dove non si udiva quasi mai una parola inglese. I Napoletani , naturalmente, non potevano non festeggiare il loro amatissimo San Gennaro , una festa che ancora oggi si celebra negli Usa.

Questi ghetti rappresentarono subito un problema per la polizia americana. In questi luoghi, infatti, centinaia di malviventi mafiosi, approdati tranquillamente in America, trovarono subito il terreno adatto per trapiantarvi i loro illeciti sistemi. Incapace di comprendere la lingua e gli usi dei nuovi ospiti, la polizia americana si limitò da parte sua a circondare simbolicamente i ghetti con un cordone sanitario, lasciando praticamente liberi i pochi malviventi italiani di taglieggiare la moltitudine onesta e pacifica dei loro connazionali. Insomma: che gli italiani se la sbrigassero pure fra di loro. L’importante era impedire che i loro sistemi sconfinassero nelle zone più civili della città.

Molti impararono presto ad adattarsi ad andare d’accordo col resto della popolazione , e a nascondere la loro nazionalità straniera; ma, non smisero mai di essere orgogliosi di ciò che erano e del luogo da dove venivano. Una piccola parte , invece, mal si adattò e andò ad ingrossare le fila della malavita che già aveva preso piede in modo massiccio nel nuovo mondo entrando a far parte della “mano nera” prima e la mafia più tardi.

Leggi anche

Lascia un Commento

Questo sito web utilizza i cookie per migliorare la tua esperienza. Continuando la navigazione intenderemo che tu sia d'accordo, ma puoi annullare l'iscrizione se lo desideri. Accetta