Durante le settimane in cui l’Ivan Vassili, oltrepassato il mare del Nord, scende lungo l’Atlantico, comunque, non accade nulla di particolare, poi, dopo che essa ha doppiato il capo di Buona Speranza ed è entrata nell’Oceano Indiano, cominciano a verificarsi degli episodi paurosi e inspiegabili.
L’equipaggio, d’improvviso, “sente” la presenza di qualcosa a bordo, qualcosa o forse qualcuno, senza riuscire a vedere nessuno e tuttavia avvertendo una sensazione di gelo accompagnata da terrore, angoscia, tensione insopportabile.
Non si sa che cosa fosse dapprima provocò la sensazione improvvisa di avere vicino qualcuno, seguita da un terrore raggelante, paralizzante, che toglieva ogni energia, come fosse succhiata da una mostruosa pompa aspirante. A volte si potè scorgere una sagoma poco luminosa ed evanescente, vagamente rassomigliante a quella di un essere umano. Ma qualunque cosa fosse, senza dubbio si trovava a bordo.
Le prime ondate di paura si succedono l’una all’altra e divengono sempre più forti. In qualche modo, tuttavia, la nave continua ad avanzare lungo la rotta stabilita, oltrepassa gli Stretti dell’Arcipelago Malese e risale, ormai nel pacifico, lungo il mar della Cina. I marinai del turno di guardia notturno sono i più spaventati: essi avvertono chiaramente che “la Cosa” è vicinissima, ma solo in pochi casi riescono a intravvedere una vaga figura che scompare tra le scialuppe di salvataggio, emanando un specie di debole luminosità. Potrebbe essere una figura umana, ma nessuno ne è certo; l’unica cosa certa è che essa, anche quando si dilegua fra le ombre della notte, non se ne vuole andare: è sempre a bordo, in qualche luogo fra la prua e la poppa, forse sopra coperta o forse sotto.
Ormai non manca più molto al porto russo più vicino, la base militare di Port Arthur. Da tempo i fuochisti hanno gettato nelle caldaie roventi il combustibile ammassato negli appositi carbonili ed è stato necessario ricorrere ai capaci sacchi supplementari di carbone per compiere l’ultima parte della traversata. Superati i caldi mari tropicali, la Ivan Vassili sta risalendo verso le medie latitudini, e il clima – specialmente la notte – va facendosi via via più fresco. È in una notte limpida e tranquilla, tuttavia, che la tragedia, a lungo attesa e sempre rimandata, finalmente esplode. Accompagnata da un improvviso senso di gelo, un’ondata di panico quale non si era mai sentita prima afferra l’intero equipaggio e lo disperde, come un termitaio impazzito: gli uomini, tremanti di terrore, corrono in tutte le direzioni, pregano, gridano, si disperano. Sembra che “la Cosa” li abbia afferrati con i suoi unghioni invisibili e li sbatta di qua e di là, crudelmente, come fa il gatto quando gioca col topo. A un certo punto un marinaio, incapace di reggere oltre alla tensione intollerabile, scavalca la murata e lanciandosi in mare, scomparendo ben presto tra le onde. Allora, come se una stanchezza mortale, innaturale avesse contagiato l’intero equipaggio, la calma sembra tornare a bordo, più che la calma, un senso d’inesplicabile sfinimento, di cupo torpore. È come se “la Cosa”, con la morte di quell’infelice, avesse saziato la sua mostruosa fame di vittime. Almeno per il momento: ma tutti avvertono che si tratta semplicemente di una tregua.
Scaricato una parte del materiale a Port Arthur e rifornitasi di carbone, l’Ivan Vassili salpa nuovamente le ancore per completare l’ultima parte della sua lunghissima crociera che deve condurla nella principale base russa dell’Estremo Oriente, quella di Vladivostok. Nulla succede il primo giorno di navigazione dopo la partenza, e nulla il secondo; ma il terzo si scatena un altro assalto della “Cosa”, e di nuovo l’intero equipaggio ne è travolto. Di nuovo urla, pianti, preghiere; di nuovo un correre insensato in ogni direzione; di nuovo un marinaio che si getta in mare, incontro alla morte. E, come la volta precedente, sembra che questa tragedia plachi per un poco la malvagia entità salita a bordo; esausti, instupiditi, gli uomini piombano in una sorta di fatalistica rassegnazione.
Tuttavia, non appena la nave entra nel sospirato porto di Vladivostok, méta finale della lunghissima crociera, ben dodici uomini dell’equipaggio tentano disperatamente di scendere a terra per abbandonare la nave “maledetta”. Nessuno sembra disposto a rimanere a bordo un solo momento di più: infatti, non hanno voluto aspettare nemmeno l’apertura dei portelli del carico. Non così la pensavano, però, le autorità russe, per le quali il viaggio dell’Ivan Vassili non si può considerare affatto terminato. La polizia portuale, pertanto, respinge spietatamente quegli uomini terrorizzati e li costringe a tornare a bordo, malgrado le loro suppliche e le loro imprecazioni, come bestiame avviato al macello. Mentre il rimanente del materiale viene scaricato sui moli di Vladivostok, i marinai della disgraziata nave sono tenuti sotto stretta sorveglianza. L’ordine tassativo è che nessuno abbandoni quella trappola galleggiante, a nessun costo. Forse, le autorità portuali non credono affatto ai racconti sconnessi e, in verità, assai poco comprensibili dell’equipaggio; o forse il difficile momento politico non consente alcun ritardo o debolezza, dato che altri compiti attendono la tragica nave. Adesso l’Ivan Vassili deve far rotta per Hong Kong, in Cina; e, di lì, proseguire poi alla volta della costa orientale dell’Australia.
Quando finalmente l’esausta nave entra nel porto britannico di Hong-Kong, nulla e nessuno possono più impedire che quasi l’intero equipaggio sbarchi immediatamente e di allontani in fretta e furia dalla nave “maledetta”. A bordo non restano che il secondo ufficiale, Christ Hanson – che assume le funzioni di comandante – e cinque soli marinai, tutti scandinavi, a quanto pare meno superstiziosi dei loro colleghi russi o, forse, più affezionati al loro ufficiale. Con un equipaggio così ridotto, evidentemente, non è possibile riprendere il viaggio per Sydney, ove l’Ivan Vassili deve imbarcare un carico di pregiata lana australiana. Pertanto Hanson si dà da fare per arruolare un nuovo equipaggio di Cinesi e riesce a mettere insieme qualcosa che gli rassomigli, quanto basta per salpare nuovamente le ancore e rimettersi in rotta per le Filippine e poi, le coste dell’Australia. Per un poco sembra che la nuova ciurma, ignara di quanto era accaduto a bordo nei mesi precedenti, non risenta di particolari suggestioni negative. Ma il nuovo comandante, proprio nell’imminenza dell’arrivo a Sydney, paga un alto prezzo al suo coraggio o alla sua ostinazione: estratta la pistola dal cassetto nella sua cabina, si spara alla testa e muore all’istante. Secondo un’altra versione, meno attendibile, si impicca a una trave; in ogni caso, muore suicida poche ore prima di poter condurre l’Ivan Vassili nel porto australiano.
Prima ancora che la nave abbia terminato le manovre per accostare alla banchina e gettare l’ancora, l’equipaggio comincia ad abbandonarla come se fuggisse da un incendio a bordo. In breve non rimane più nessuno, Scandinavi e Cinesi non ne vogliono più sapere e sul mercantile “maledetto” non resta che un solo uomo, non sapremmo dire se più intrepido o temerario. Si tratta di un certo Harry Nelson, che non vuole dare alla “Cosa” partita vinta e rimane ostinatamente a bordo; forse, chissà, spera di ottenere una grossa ricompensa dalle autorità russe, se riuscirà a ricondurre in patria la nave col suo carico di notevole valore economico. Ma per ben quattro mesi essa rimane immobile presso il molo di Sydney: le voci corrono svelte per le bettole del porto, e perfino tra i rudi Australiani è difficile trovare qualcuno che osi sfidare la maledizione senza volto che sembra incombere sopra la volontà degli uomini.
A questo punto diviene impossibile mantenere la rotta verso San Francisco. L’equipaggio, folle di paura, vuole tornare in porto per la via più breve, e Harry Nelson, che si è autonominato comandante, vira di bordo e mette la prua in direzione di Vladivostok. Deciso a non lasciarsi sopraffare da quella forza misteriosa, egli tenta coraggiosamente di risolvere il mistero. Ispeziona tutta la nave interroga i marinai; ma non riesce a venire a capo di nulla. In compenso, gli riesce la notevole impresa di riportare l’Ivan Vassili a Vladivostok, senza che vi siano state nuove vittime. Ma non appena essa entra in porto, l’intero equipaggio sbarca precipitosamente e questa volta né le baionette dei militari russi, né la promessa di un ingaggio a condizioni eccezionalmente favorevoli riescono a riportarli a bordo. Per ultimo scende a terra anche il Nelson, l’unico membro dell’equipaggio originario: perfino lui ne ha avuto abbastanza, e si considera fortunato di aver riportato in salvo la vita. Nessun altro equipaggio verrà trovato per la nave “maledetta”: nel porto russo regna ovunque la convinzione che una entità demoniaca si trovi tuttora a bordo e nessun marinaio sarebbe disposto a rischiare d’imbarcarvisi, neanche per tutto l’oro del mondo. Passano gli anni e la nave è sempre lì, tristemente ferma in un angolo del porto. Nell’inverno del 1907, improvvisamente, un incendio si scatena a bordo con estrema violenza, divorandola con terribile violenza. Non è un incendio casuale, ma doloso: i marinai russi, convinti che un demonio si nasconda sull’Ivan Vassili, hanno deciso di purificarla col fuoco e, mentre il bastimento arde sinistramente nella notte, lo stanno ad osservare dalle barche tutto intorno, recitando preghiere ed esorcismi. Prima che la nave scompaia per sempre in fondo al mare, dicono che un terribile grido si sia levato al di sopra del crepitio delle fiamme e dello schianto degli alberi sul ponte di legno. È finita: la nave “maledetta” non solcherà mai più i mari, non ucciderà e non farà impazzire più nessun essere umano.